Game start, Game over.

Mi sembrava di essere intrappolato in un endless level di sconforto, come se stessi giocando a un platform anni '90 dove l'unica mossa possibile fosse saltare nel vuoto, perché, hey, l'unica risposta era sempre impossibile. Sì, esatto: impossibile essere felice, impossibile trovare un consiglio, impossibile strappare anche solo un briciolo di conforto. Era come se la mia vita fosse stata programmata con il cheat code "Nessuna via d'uscita".

La routine quotidiana era una specie di "livello bonus" in cui l'orologio segnava: sveglia alle 8, scuola alle 9, e da lì, fino alle 13.30, una maratona di paure e umiliazioni che neanche il più implacabile dei boss finali poteva eguagliare. E poi, il ritorno alla mia fortezza della solitudine: casa, dove la TV, come un fedele compagno di pixel, scandiva le ore con la precisione di un timer in un gioco arcade. La TV era la mia unica amica, il mio guardiano, quasi il Mario del mio mondo altrimenti privo di power-up.

Solo la fantasia riusciva a interrompere quella sequenza di eventi da manuale. Mi alzavo dal divano, guardavo il cielo e sognavo di poter fare qualcosa—qualunque cosa, davvero—per rompere quel loop infinito. Immaginavo di attivare un potenziamento, come se raccogliere una stella potesse rendermi invincibile anche solo per un istante. E poi, nella disperazione da game over, ho persino pensato di farla finita. Ma, ironicamente, avevo paura di essere troppo cruento contro me stesso, come se non volessi rovinare la grafica già troppo malinconica del mio esistente livello.

E, in un colpo di scena tipicamente tragicomico, mi sono ritrovato a pensare: "Perché non soffocarsi, visto che, a quanto pare, la soffocatura è quasi impercettibile?" E subito, come in una sceneggiatura troppo autoironica per essere vera, mi vergognavo di quel pensiero. Mi vergognavo di averci creduto, di aver permesso a quel pensiero di insinuarsi come un bug nel mio codice emotivo. Cosa avrebbero detto gli altri di me? Come se un cadavere, sì, un cadavere, potesse provare vergogna.

Così, eccoci qua, in questo mix tra una vecchia console a 16 bit e il dramma quotidiano di un adolescente in modalità "perma-game over". Ironia della sorte: la mia vita sembrava una parodia dei titoli più assurdi dei platform anni '90, in cui l'unica via d'uscita era un reset, eppure non riuscivo a premere quel pulsante magico. E mentre il mondo intorno a me giocava alla versione deluxe dell'iperattività sociale, io mi ritrovavo a ridere amaramente, con un sarcasmo pungente, dell'assurdità di cercare di vivere come se ogni giorno fosse una partita a cui non riuscivo mai a vincere.